A cura di Antonio Dini Numero 10 ~ 12 maggio 2019
LINKEDIN, UNO SFOGO
(occhio che è uno sfogo lungo, eh)
Non amo, non ho mai amato LinkedIn. Innanzitutto perché mette tutti quanti nello stesso ambiente "Ikea": profili prefabbricati e modulari in cui appendere le nostre fotografie e i nostri piccoli percorsi di carriera. LinkedIn a mio avviso riduce la diversità a un approccio lineare strutturato a moduli che è a dir poco punitivo. È il Facebook dei curriculum, e dopo l'acquisizione da parte di Microsoft (ci torno tra un attimo) è diventato anche peggio.
Inoltre, LinkedIn è in pratica il social network del business, sulla base del fraintendimento che sia un ambiente in cui le persone sono interessate a ricevere pitch, condivisioni di materiali promozionali di tipo lavorativo, articoli di dubbio interesse, brochure marketing, notizie di mercato, foto di gruppo dell'ultima attività messa in ponte e qualsiasi altra cosa passi per la testa agli imbenzinati del marketing. Il tutto infatti è condito da uno spirito "engaging" e "adrenalina corporate" e "passione come se non ci fosse un domani", che alla fine sembrano tutti sparati con il cannone. Capisco che ci siano persone così in natura (li incontri fin dall'asilo, probabilmente) ma dargli un megafono digitale di queste proporzioni mi sembra sbagliato e pericoloso soprattutto per la loro salute mentale: perché poi ci credono. È una attitudine che sconfina nella psicosi.
L'acquisto da parte di Microsoft ha ancora di più aumentato questa dimensione avvelenata e markettara di LinkedIn. Quello che un tempo serviva per connettere le singole persone tra di loro (alma mater, background professionale, comunità di interessi) e renderle visibili alle organizzazioni in cerca di nuovi dipendenti, ora è diventato altro. Era un posto per avere una versione migliore e più interattiva del proprio curriculum, è diventata una festa per piazzare prodotti o far vedere quanto siamo tutti lanciati a palla. Una gara a chi ha la ghiandola dell'energia egocentrata che pompa di più.
In aggiunta, ed è la cosa che mi infastidisce di più, LinkedIn è diventato anche un modo per agganciare e contattare direttamente le persone - tramite i messaggi diretti - e fargli delle offerte commerciali. Nel mio piccolo quasi ogni giorno vengo contattato da qualcuno che mi chiede il collegamento. Non li conosco praticamente mai. Cerco di collegare solo persone con una parvenza di continuità con il mio lavoro di giornalista, ma fare triage in quel contesto è difficile. Ogni due o tre giorni mi arrivano un paio richieste di collegamento da persone con questo tipo di profilo:
Consulente gestione tecnico finanziaria, ristrutturazione aziendale e marketing, manager a tempo e ad obbiettivo. XXX Area.
Potete immaginarvi il messaggio che segue, se accetto il collegamento:
La contatto in quanto sono la responsabile della convenzione che la nostra filiale sta instaurando con tutti gli iscritti all'Ordine dei Giornalisti. Entro fine mese infatti riceverete questa comunicazione, ma essendo questa iniziativa promossa dalla mia filiale, sto già fissando appuntamenti con molti di voi dalle prossime settimane per dare alcune anticipazioni.
Volevo chiederle quando ha una disponibilità di 20/30 minuti del suo tempo libero per poterne parlare.
Come giornalista, metà di quello che ricevo viene da startup e altre aziende che cercano di piazzarmi il loro comunicato stampa o presentare la loro attività. Poi ci sono le società che fanno marketing e contenuti che mi chiedono di collaborare con loro (ma, come giornalista professionista che lavora per testate giornalistiche, considero deontologicamente scorretto lavorare anche per la comunicazione delle imprese, e quindi declino o, più di recente, non rispondo neanche) e poi quelli che vogliono semplicemente vendermi qualcosa. Se fosse email, non riuscirebbe neanche a passare il filtro antispam del provider. Mi rendo conto che il mio profilo è atipico - a causa della mia professione - però il problema esiste ed è ovviamente più ampio di quello di chi fa il giornalista.
Inoltre adesso - soprattutto dopo l'acquisizione da parte di Microsoft - LinkedIn non solo cerca di venderti la membership che permette di vedere chi ha visitato il tuo profilo (che è una cosa utile se il focus rimane quello di caricare il proprio curriculum in una banca dati per trovare o cambiare lavoro) ma piazza anche tanta pubblicità, compresi messaggi in chat non richiesti e non autorizzati (ma pagati dall'inserzionista).
A LinkedIn abbiamo dato fiducia in molti, sostanzialmente caricando le nostre informazioni personali e lavorative con l'obiettivo di fare rete ed essere utili alla nostra carriera lavorativa: trovare o cambiare lavoro noi ed altri più o meno come noi. Adesso LinkedIn è diventato un social network del mondo del lavoro, ma con una spinta marketing quasi disperata per l'eccesso di energia che riceve.
Il motivo? Semplicemente, la posta elettronica è satura, le pubblicità sui siti è pessima o bloccata, gli social più generalisti non funzionano. Serviva un nuovo canale dove pescare un po' più di attenzione delle persone.
Dentro LinkedIn ci sono due cose di valore: una riserva di fiducia (è un sito per l'aspetto lavorativo della nostra vita) e di attenzione (c'era relativamente poco rumore e ogni messaggio o condivisione è percepito come potenzialmente importante). Inoltre, LinkedIn è spesso utilizzato anche come strumenti di carriera, nel senso che i capi o i committenti sono presenti, interagiscono nelle comunità, e quindi - se vuoi andare avanti - devi partecipare. Non ci sono troll, non c'è pornografia o meme o virali o altre cose di basso livello. È il paradiso di marketing e comunicazione. Però è un social.
In quanto "social", macchina costruita per monetizzare i suoi utenti e quindi per risucchiare la loro attenzione e misurarla con like e condivisioni, è come una dieta ipercalorica: gli individui perdono ogni remora o freno inibitore e spingono come muli perché paga, paga molto più che non mandare messaggi deboli, sottovoce, rari e significativi.
Sono già uscito da Facebook senza grandi rimpianti (nonostante sia giornalista e quindi sia eticamente tenuto a partecipare alla conversazione: ma anche no) tuttavia ho più difficoltà a lasciare LinkedIn. Ma mi stanno veramente facendo passare la voglia. Scusate lo sfogo. Non mi contattate su LinkedIn.
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IL TERZO INCOMODO
C'è chi ha in tasca un telefono con iOS, chi uno con un Android. E poi ci sono quelli con un telefono che usa KaiOS. È il sistema operativo dei telefoni "dumb", quelli "non-smart". Magari con tastiera, schermi da due pollici e mezzo, però con la batteria che durano fino a un mese.
Il mio muletto personale è un Nokia 8110 (nuova versione, non la vecchia). Un telefono che costava 80 euro e ora ne costa una quarantina. È 4G, la batteria dura un paio di settimane, ha la famosa forma a "banana" con lo slide frontale, nel mio caso è anche giallo e dual sim: perfetto per quando si va in vacanza al mare. E usa KaiOS, che da pochi giorni supporta anche WhatsApp (qui la faq). Speriamo anche Telegram e Signal, un giorno.
Quello che sta succedendo, da un anno a questa parte, è una specie di rivoluzione low-fi, che viaggia veloce ma non velocissima: il cambiamento di paradigma e l'arrivo di telefoni che non sono potenti, flessibili e intrusivi come gli smartphone, ma qualche freccia smart comunque ce l'hanno. KaiOS è di San Diego e ha fornito il sistema operativo al 21% dei telefoni consegnati nel mondo nel 2018; a oggi ci sono 85 milioni di apparecchi KaiOS nel mondo. Pochi ma crescono. Il loro obiettivo è gigantesco: siccome costano poco e la batteria dura molto, vogliono arrivare a conquistare quel 34% della popolazione mondiale che non ha un cellulare e quel 57% che non usa internet mobile a causa del prezzo e della mancanza di accessi.
Servono per la comunicazione telefonica, via sms e messaggi, forse per le mappe (ma anche no). Google sta lavorando delle app di riconoscimento vocale per rendere il sistema operativo un po' più smart. Personalmente uso il Nokia anche come hot-spot portatile (funziona molto bene) con la sim di Iliad che ha un sacco di giga. Per il resto, non fanno praticamente niente.
C'è addirittura una fotocamera totalmente inutile da 2 megapixel e uno schermino a colori. Ma sono la rivoluzione per interi pezzi di mondo, ad esempio l'India: in quel Paese hanno il 16% del mercato, sono il secondo sistema operativo dopo Android e prima di iOS (fermo al 10%). E sono attraenti anche per noialtri italiani.
Con un amico diciamo spesso: pensa che bello se ci fossero telefoni così: 4G, con lo schermo e-Ink in bianco e nero: la batteria durerebbe tre mesi. Lui usa un Nokia 3310 (quello nuovo 2G, non quello vecchio 2G), che non è neanche KaiOS, è solo un telefono.
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IT'S NOT A BUG, IT'S A FEATURE
Mentre scrivo questo pezzetto della newsletter sono a Sitges, a una quarantina di chilometri da Barcellona. È una conferenza organizzata da Netevents sui temi di cui mi occupo come giornalista: mercato della tecnologia. Faccio una domanda a un personaggio altrimenti difficile da intercettare perché vive in Israele: Michael Kagan, CTO di Mellanox, per una vita a Intel (è il papà del Pentium) prima di fondare venti anni fa l'azienda che da pochi mesi è stata acquistata per 7 miliardi di dollari da Nvidia.
Negli ultimi anni ci sono state delle falle di sicurezza enormi che dipendono dai processori: Heartbleed nel 2014, Meltdown e Spectre nel 2017, Foreshadow nel 2018. Chissà quale sarà la prossima. Non c'è difesa perché se è compromesso il processore, non c'è sistema operativo o crittografia che tengano. La domanda è: come mai ci sono questi problemi? Sono dei bug nella progettazione dei processori? Capirlo è importante per cambiare il modo con il quale si realizzano i processori e risolvere questa classe di problemi di sicurezza. Invece no.
Mi è piaciuta la risposta: «Non sono bug. Un bug ad esempio in un software vuol dire che l'applicazione funziona in modo diverso da come ti aspetti che faccia. Invece nel caso di Spectre e degli altri, il processore funziona esattamente come è stato progettato. Sono gli attaccanti che, osservando il suo comportamento, ricavano delle informazioni utili per portare avanti un attacco. È qualcosa di più profondo di un bug, perché tocca il modo stesso con il quale funziona il processore e lo rimette in discussione».
La logica è quella ad esempio di una spia che voglia sapere quante persone si riuniscono in una stanza segreta della quale però lui riesce a sapere la temperatura grazie al funzionamento del condizionatore: a seconda di quanto va il condizionatore si può stimare di quanto sia salita la temperatura ovvero quante persone siano entrate nella stanza. Non è un bug, è una feature.
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LA FILOSOFIA DEI TATUAGGI
Una delle mie allieve, Vernante, mi spiega qualcosa dei tatuaggi.
«Tra gli insegnamenti di mio padre, vi è quella che lui chiama la Filosofia dei Tatuaggi.
I) In un tatuaggio la pura estetica non esiste. Anche se non ne sei consapevole, in qualche inconscia maniera il disegno che scegli parla: se ti sei fatto un tatuaggio semplicemente perché ti piaceva il disegno, senza un significato profondo, esso è il simbolo della tua immaturità; se sei giovane, è comprensibile, ma è proprio per questo motivo che
II) Per fare un tatuaggio con cognizione di causa devi essere maturo (non per forza per età anagrafica). Il valore che risiede nelle immagini si impara con l’esperienza e devi avere qualcosa da raccontare.
III) La posizione sul corpo è forse più importante del disegno stesso, anche le dimensioni sono una dichiarazione del valore. Se lo nascondi dietro la schiena, forse è perché non vuoi vederlo. Se ti sembra “troppo grande”, devi chiederti quanto tu ne vada fiero o ne sia convinto.
IV) Un tatuaggio viene fatto per gli altri. Se fosse un simbolo solo per te stesso, non avrebbe senso esternarlo ed esibirlo.
V) Il tatuaggio è un rito. Il dolore è da affrontare con coraggio, il momento in cui ci si tatua da scegliere con cura: il giorno, il luogo, il tatuatore, gli accompagnatori.
VI) I tatuaggi possono essere cicatrici o premi. Corrispondono alle voci della carta d’identità di una persona, ne raccontano la storia e l’appartenenza.
Il 6 ottobre 2016 mi sono fatta un tatuaggio, contravvenendo alla maggior parte delle regole di mio padre.
L’ho fatto da sola, di nascosto, e quando lui l’ha scoperto abbiamo avuto un lungo litigio che mi ha lasciato scritta sulla pelle questi sei insegnamenti. Ed è come se ora, inevitabilmente, il mio tatuaggio significasse anche questo».
Tatoo - Foto @ Antonio Dini
TSUNDOKU
Perché, quando si comprano libri e non si leggono ma si accumulano e basta, c'è una parola (giapponese) per dirlo
In questi giorni mi sono capitati fra le mani:
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano solo all'oggetto culturale citato.
::END::
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