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ALCUNE COSE UN PO' DI CORSA
C'è un problema per quanto riguarda il lavoro dei freelance, soprattutto in un settore morente come l'editoria: che non vengono pagati in maniera decente. Però, se lo fossero - come a quanto pare succede in alcune parti degli Stati Uniti - il significato del lavoro part time potrebbe acquisire nuove e interessanti dimensioni: "This is not an essay about how women are expected to do the work of managing a home on top of our paid jobs, nor a paean to ‘lean-in’ efficiency that explains how I wake up at 4am, answer emails while the kids are still in bed, and use productivity tricks to get things done at double-speed. Because here’s my secret – one that feels about as dirty and uncomfortable to reveal as anything I could tell you about my sex life – I don’t work that much. I’m a freelance writer, which means I can more or less choose how much I work. And my usual choice is something like 30 hours a week."
Invece, il problema con il giornalismo in particolare, è chiaro: si è rotto il giocattolo, cioè il patto sociale tra giornalisti ed editori. Che sia stata la crisi dei media tradizionali o l'incapacità di reinventarsi, la rigidità salariale (ma succede solo in Italia) o la perdita di senso nella prospettiva storica di società che non hanno più bisogno di professionisti dell'informazione intesa come risorsa scarsa, fatto sta che il patto prevedeva che il giornalista desse tutto se stesso al lavoro (era dopotutto l'aspetto bohémienne della professione, a volerla guardare da una prospettiva romantica) e in cambio veniva protetto e in qualche modo preservato più di moltissime altre categorie di lavoratori. Questo in ragione della sua funzione sociale. Perché il giornalista, inteso come individuo che deve effettuare una attività di raccolta, analisi, presentazione e commento dei fatti che reputa degni di diventare notizie (il giornalista ha un ruolo attivo, è un "agente creativo", non un passacarte umano o un bot per quanto "creativo"), per esercitare la sua funzione sociale di giornalista deve essere tenuto fuori dal samsara della vita comune. Altrimenti ciao. E adesso che il giornalismo non serve più (perché c'è la propaganda social e automatica), ciaone davvero, temo.
È il de profundis della mia attività professionale, che arriva a geometria variabile e in tempi diversi: prima i freelance e chi lavora in testate "leggere", o sta in ambiti di confine, che vengono decapitati ogni giorno a decine. Poi le larghe fette di "anziani" che vengono epurati e prepensionati. Infine, i giapponesi che resistono dentro le grandi redazioni svuotate, con i pozzi dell'acqua avvelenata da editori a rischio chiusura e un livello di sindacalizzazione tossico, cercando di sopravvivere terrorizzati a un futuro che non vogliono. Alcuni rovinati, altri riccamente pensionati, molti impoveriti, complessivamente umiliati da un ruolo professionale che è viene rappresentato con una luce sempre più negativa.
Il telelavoro è una cosa buona? E allora perché lo usano così poche aziende? "When I worked in an office, there were a lot of times I enjoyed catching up with my coworkers. Face time does build connection. But there were more times that I commuted to the office, got my coffee, caught up with people, and dealt with a few “pop ins.” And before I knew it, the clock said 10:30 and I hadn’t accomplished a single thing on my to-do list."
Non se n'è parlato, ma la prossima versione del sistema operativo degli iPhone, iOS 13, apre la porta a un uso molto più ampio del chip NFC che è presente sui telefoni di Apple: "Apple had unveiled some of its plans around NFC by pre-announcing support for NFC stickers and tags that can trigger Apple Pay payments at the Transact conference in Las Vegas, just ahead of WWDC. Bird (scooters), Bonobos (retailer) and PayByPhone (parking meters) said they would soon support this feature, which enables NFC transactions without a terminal or special app from the vendor."
Sempre parlando di Apple, Jason Snell articola un ragionamento molto interessante sulla lentissima ma costante transizione tecnologica di Apple, che cambia a una velocità tale che non ce ne rendiamo quasi conto: "And then we’ll turn around sometime in the 2020s and realize that all of this talk of UIKit and AppKit and Catalyst is behind us, and that our apps are written in Swift with interfaces created using SwiftUI. It will have all changed due to Apple’s slow and steady pace of iterative, continuous improvement. The long game never stops, and it can be hard to see that you’re even in it."
Infine, l'impatto che la tecnologia sta avendo nelle scuole, come punto di flessione e di incontro fra lingue e culture diverse: "We’re inexorably heading closer to universal translation becoming a completely normal part of daily life, with Apple tech used at schools across Europe to help teachers and students speak to each other."
Nello Tsundoku di questa settimana ho messo un disco dei Supertramp che ho scoperto da pochissimo. Ma l'ho scoperto per caso e comprato fisicamente su Amazon come CD audio, perché sui servizi di streaming non c'è (Apple, Spotify e la stessa Amazon). E questo fa parte di un problema più ampio: il tipo di musica che ascolto è di qualche anno fa (60-70-80, per capirsi) e ha la forma dell'album, non della playlist. Preferirei avere accesso ai dischi originali in formato digitale, ed è uno dei motivi per cui sono abbonato a Musica di Apple. La cosa però non succede quasi mai: se ci sono, gli album digitali sono versioni rimasterizzate nei primi anni duemila (secondo me malissimo dal punto di vista della gamma dinamica) con al loro interno decine di canzoni, estratti, second take, live etc che non mi interessano per niente. Vorrei sentire le undici, canoniche, maledette canzoni di Rumors dei Fleetwood Mac senza averne altre venti della versione deluxe, per favore. Altro problema: è stato digitalizzato circa il 18% della musica registrata. E questo non va per niente bene. Lo stesso problema c'è per i servizi di streaming video, che offrono pochissimo catalogo televisivo. Abbiamo creato un vuoto. Altro che "libraries" e coda lunga. Tutto questo mi sta facendo cominciare a pensare che non solo abbiamo un problema di memoria e di storia, ma che forse il motivo per cui alcune persone pensano che il supporto analogico abbia ancora un senso, se non altro andando all'indietro, sia collegato all'impossibilità di adattarsi a un mondo digitale in realtà molto meno completo e soddisfacente del dovuto.
Durante gli anni Novanta, quando facevo il giornalista radiofonico, ho conosciuto Andrea Borgnino, che all'epoca già collaborava con dei programmi radio della Rai. Ci siamo sfiorati un po' di volte, non credo neanche abbia idea dell'influenza che ha avuto nei miei anni successivi (o che si ricordi che esisto, se è per questo). Poco tempo fa per caso ho trovato questo radiodramma in cinque puntate trasmesso da Radio3 Rai tra il 22 e il 29 marzo 2010: Marconisti. Sono storie di radiotelegrafisti, gli operatori radio a bordo dei transatlantici o delle navi cargo, che garantivano con il loro lavoro le comunicazioni radio con la terra e con le altre unità in navigazione. Sono una figura storica unica, oggi completamente scomparsa se non nella memoria degli ultimi pensionati del settore. "Il marconista è un lavoro che non esiste più, sostituito da computer e satelliti, ma il suo agire è ancora vivo nel mondo dei radioamatori che in tutto il pianeta ancora utilizzano la telegrafia per comunicare e fanno rivivere un epopea iniziata con l'invenzione di Guglielmo Marconi". Il documentario, secondo me, è eccezionale, anche per il gusto e l'intenzione.
Rito di passaggio - Foto © Antonio Dini
TSUNDOKU REGULAR
Perché, quando si comprano libri e non si leggono ma si accumulano e basta, c'è una parola (giapponese) per dirlo
In questi giorni mi sono capitati fra le mani:
TSUNDOKU POETRY ROOM
Un oggetto di poesia alla settimana, a cura del poet-in-residence Roberto R. Corsi (@rrcorsi)
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano solo all'oggetto culturale citato.
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